di Fabio Belloni_
Contestazione estetica e azione politica:"Cartablanca" e "Senzamargine"

Attraverso lo studio di riviste come “Cartabianca” e “Senzamargine”, edite a Roma tra il 1968 e il 1969, è per molti aspetti possibile ricostruire le problematiche fondanti, le riflessioni e i motivi ricorrenti che caratterizzarono l’animato dibattito della critica d’arte militante italiana a ridosso delle coeve circostanze contestatarie. La vicenda di entrambe le pubblicazioni deve essere inquadrata all’interno di quello che, allo scadere degli anni Sessanta in Italia, si configurò come un vero e proprio rinnovamento dell’editoria artistica che nel corso della decade successiva sarebbe proseguito con ancor maggior intensità. Un mutamento in larga parte correlato al repentino ricambio generazionale in seno alla critica d’arte che, ai nomi già attivi nelle stagioni precedenti, aggiungeva o, meglio, sostituiva personalità nuove, volte a promuovere radicali situazioni estetiche attraverso strumenti interpretativi progressivamente tesi ad abbandonare la consueta lettura di carattere purovisibilista, per mutuare da discipline come lo strutturalismo, la semiologia o l’antropologia, inedite modalità di ragionare sul manufatto artistico. La molteplice presenza di riviste d’arte contribuì con una certa tempestività a documentare e a divulgare la ricerca visiva italiana ed internazionale d’avanguardia; in particolare, a dotarla di un adeguato supporto iconografico e critico, che dalle pubblicazioni di carattere letterario e dalle terze pagine dei quotidiani, luoghi preferiti per dibattere d’arte nelle scorse stagioni, migrava decisamente su periodici specializzati. Tra 1967 e il 1969, infatti, tra Roma e Milano, a fianco di rodate riviste interdisciplinari, quali “Marcatre” o “Collage”, per esempio, si aggiunsero mensili e quindicinali come “Bit”, “Flash Art” e “Nac”, solo per ricordare gli episodi più significativi. La storia editoriale per ognuno di questi contributi fu varia e differente: generalmente una propositività sperimentale e avanguardistica è risultata sincrona ad una durata effimera; a volte breve (“Bit” contò una decina di numeri tra il marzo del 1968 e l’autunno dell’anno successivo), altre maggiormente longeva (come “Nac” uscito per quasi sei anni); unico, invece, il caso di “Flash Art” che dal 1967 esce regolarmente tuttora.
A latere della pubblicistica d’arte più strutturata, nella seconda metà degli anni Sessanta, non tardarono a fiorire anche periodici, bollettini e notiziari finanziati da gallerie private impegnati non solo a promuovere criticamente le scelte delle gallerie d’appartenenza, ma anche a fornire un più vasto orizzonte di riferimenti che, nei migliori dei casi, poteva addirittura aprirsi alle situazioni estetiche statunitensi. Malgrado non abbiano beneficiato di ampie tirature, così come di capillari diffusioni sul territorio, in molte circostanze le riviste di galleria hanno vantato firme autorevoli, tali da inserirsi a diritto all’interno di una discussione di livello nazionale. Ne furono significativi esempi “Qui arte contemporanea” e “Il Margutta” a Roma;  “D’Ars Agency” a Milano; i notiziari e i quaderni della Galleria De’Foscherari di Bologna o, ancora, “Made in” a Napoli.
In un simile variegato panorama, il mensile “Cartabianca”, afferente alla neonata galleria d’avanguardia romana L’Attico di Fabio Sargentini, si distinse come il più rilevante caso di strumento organico ad una sede espositiva e commerciale privata. Dal marzo del 1968 al maggio dell’anno successivo: cinque numeri in tutto a loro volta distinti in due serie – una, comprendente i primi tre fascicoli, diretta da Alberto Boatto; l’altra seguita da Adele Cambria – tra loro sensibilmente differenti per impostazione e genere di problematiche affrontate.
Nella primavera del 1969, in seguito alla rottura della collaborazione tra Boatto e Sargentini, il critico promosse “Senzamargine”, sorta di appendice della precedente esperienza, questa volta però affrancata da un referente galleristico. Coinvolgendo i medesimi e nuovi collaboratori, tra cui Magdalo Mussio che conferì alla rivista una grafica sperimentale, proseguì, nell’unico numero edito, nel solco dei dibattiti precedentemente iniziati.
Il carattere effimero di simili riviste non ha impedito loro, in particolare per “Cartabianca”, di porsi quali veicoli cruciali per testimoniare parte delle istanze critiche e artistiche dell’ultimo frangente degli anni Sessanta. Due evidenti ragioni hanno infatti qualificato il periodico informativo dell’Attico e poi la sua naturale filiazione: l’importanza delle intelligenze riunite, animatrici di un dibattito aggiornato, in linea con i più radicali linguaggi espressivi delle neo-avanguardie, ma anche con i contemporanei avvenimenti sociali e culturali; la non scontata presenza di cospicui apparati fotografici di supporto, talvolta anche a piena pagina, tesi a documentare le ricerche intorno all’arte povera e, praticamente per primi in Italia, all’arte minimal, all’anti-form, alla Land Art. Con l’avvento del ’68, inoltre, “Cartabianca”, seppe giocare d’anticipo sulle contemporanee pubblicazioni, tentando per prima di dare organicamente voce alle problematiche e alle istanze di una critica oramai sempre più volta alla politicizzazione delle proprie tematiche e del proprio lessico. Se negli esempi coevi di riviste d’arte, come “Bit”, la tendenza diffusa era quella di proporre, quasi senza mediazioni, bollettini rivendicativi e programmatici del movimento studentesco e di quelli che, di lì a poco, si sarebbero organizzati in gruppi extraparlamentari, la rivista romana tentava per prima di porre in discussione quanto di nuovo stava succedendo in Italia e all’estero e sulle conseguenti implicazioni nel mondo dell’arte.
Nell’editoriale del numero di apertura, – in cui non era difficile scorgere i drammatici riverberi del vicinissimo scontro di Valle Giulia – Boatto indicava come “Cartabianca” “non riconosce nessuna ragione più motivata della ragione del presente e del nuovo”. Una tensione verso la novità che, tuttavia, continuava il critico, non si precludeva di transitare anche nei territori delle avanguardie storiche, in particolare del futurismo, che la cultura italiana (con studiosi come Calvesi e Fagiolo dell’Arco, coinvolti anche nella rivista) da non molto si era avviata a riconsiderare. Filiberto Menna, Maurizio Calvesi, Germano Celant, Achille Bonito Oliva e Tommaso Trini, cui, in occasione di “Senzamargine”, si aggiunsero Giulio Carlo Argan e Alberto Asor Rosa, furono le figure, tra loro di differente generazione, esperienza e provenienza, riunite da Boatto nella convinzione, come egli stesso ebbe a sottolineare, che il tentativo di porsi consapevolmente dinnanzi all’incedere degli eventi di carattere artistico, ma anche e soprattutto sociale e politico, dovesse essere perseguito mediante un lavoro d’équipe, basato sulla ricerca comune, lontano quindi dal lavoro individuale e particolaristico. A riguardo, resta tutt’ora sorprendente riflettere su come ci sia stata un’occasione, in seguito mai più verificatisi, certamente brevissima, ma comunque di cruciale importanza, che ha visto coesi attorno ad un progetto comune, quello di “Cartabianca” e “Senzamargine”, la migliore civiltà critica italiana del momento e di diversi anni a seguire.
Contestazione estetica e azione politica fu il sottotitolo di entrambe le riviste, rispettivamente apparse nel novembre del 1968 e nella primavera dell’anno successivo, comprendente una serie di saggi impegnati a riflettere a caldo sulle modalità operative della cultura e della critica d’arte dinnanzi alle problematiche che i recenti avvenimenti di cronaca italiana ed internazionale avevano posto in questione. In particolare, con l’occupazione della Triennale di Milano e della Biennale di Venezia, l’ambito artistico era stato direttamente chiamato in causa andandosi quindi ad aggiungere al generalizzato clima di tensione seguito alle contestazioni studentesche.
L’intellettuale, nello specifico il critico d’arte, come interpretava le rivendicazioni antiautoritaristiche, i sommovimenti degli strati più giovani della popolazione? Che rapporto doveva intrattenere con la politica? Poteva essere scorta una continuità tra quelle vicende e la contemporanea ricerca artistica? Era possibile individuare esperienze estetiche a loro modo intimamente connesse agli eventi, alle loro ragioni più interne? E, soprattutto, in una posizione autoriflessiva, il critico come considerava il proprio ruolo? Poteva avanzare ancora con gli strumenti interpretativi fino a lì utilizzati, o, inevitabilmente, doveva ricorrere ad altre formule di lettura? La tavola rotonda, visivamente intercalata dalle riproduzioni di opere di artisti come Merz, Kounellis, Patella, Zorio o Pistoletto, degli appena scomparsi Pascali, Fontana, Duchamp e Leoncillo, ma anche da immagini corali della battaglia di Valle Giulia, del maggio parigino con le barricate di Boulevard Saint-Michel e dei muri ricoperti di scritte della Sorbona, tentava una risposta a questi interrogativi.
La complessità delle proposte e delle implicazioni che esse sottendono – di cui in questa sede è possibile offrire solo uno scavo rapido e superficiale, data l’esiguità dello spazio a disposizione – , il più delle volte formalizzate mediante un linguaggio di non immediata comprensione che, al diretto riferimento ai fatti, alterna le figure della metafora e della similitudine, complicato ancora da un lessico fino ad allora desueto per una pagina di critica d’arte, mutuato da discipline extra-artistiche, consente comunque di organizzare per nuclei le fondanti linee tematiche degli interventi di Argan, Asor Rosa, Boatto, Bonito Oliva, Calvesi, Celant, Menna e Trini. Si tratta di riflessioni che oggi, in un studio delle vicende della critica militante di quegli anni, trovano uno dei punti di forza nel loro essere pressoché contigue agli accadimenti, nell’assenza, quindi, di un pur minimo distanziamento cronologico che consente una più meditata valutazione delle circostanze. Saggi, insomma, concepiti in una situazione ancora tutta in divenire (i testi di “Cartabianca”, anche se pubblicati nell’inverno del ‘68, furono redatti nel corso dell’estate) e per questo non ancora vincolati da una visione cristallizzata; decisamente aperti ad elaborare posizioni tra loro difformi e finanche contraddittorie; cariche più di interrogativi e di problematiche ancora involute nella loro formulazione, piuttosto che di risposte concluse e di soluzioni realmente percorribili.

L’attenzione per il contemporaneo politico. Ciò che maggiormente sorprende degli interventi è l’esigenza, sostanzialmente inedita fino a quel momento, di far precedere le proprie riflessioni dalla considerazione del contesto sociale, giudicato, in linea con l’ondata contestataria, repressivo e intollerante. Alla sintetica descrizione dei fatti, la critica d’arte si sforza di tentarne una motivazione, di interpretarne le cause interne mediante una lettura di taglio sociologico; è chiaro che, con diverse declinazioni, tutto il gruppo riunito prima attorno a “Cartabianca” e poi a “Senzamargine” si schiera a favore degli studenti insorti. La rivendicazione del gruppo è più di ordine ideologico che politico e questo è il filo caratterizzante tutti gli interventi. Si prendano, per esempio, i testi di Boatto e Argan, i più espliciti in questo senso. Riferendosi ai moti contestatari di Berlino, Tokio, Berkley, Roma e Parigi il primo studioso scorge in loro un latente carattere di sfogo contro una società che nega l’“irrazionale biologico” a favore dell’“irrazionale tecnologico e distruttivo”. Prima che politica, sono mossi da un’esigenza di carattere antropologica collocandosi “in un sistema di opposizione elementare dell’essere contro l’avere, della vitalità contro la programmata monotonia”. Qualche mese dopo, Argan inquadra e ritiene leciti gli eventi “come reazione alla violenza repressiva che il sistema esercita contro la totalità biopsichica dell’essere umano”. Concorda con Boatto nel non etichettare come politica la contestazione, piuttosto come il tentativo di creare uno stato “pre-ideologico”, una “condizione elementare di libertà”, che eluda i vincoli repressivi. 

La dimensione estetica. C’è la consapevolezza di vivere in una realtà molto differente da quella del dopoguerra: ora l’arte e l’intellettuale non possono soggiacere alla politica, “maschera di comodo del potere capitalistico”, nell’inequivocabile dichiarazione di Argan; al contrario, è una posizione critica che si deve assumere. È palese la sfiducia nel partito (comunista), organo egemone e prevaricatore dell’intellettuale. “Non ci interessano i partiti, una certa politica di sinistra, se non come strumenti sperimentali” annota Trini. Il vuoto politico, allora, va colmato con l’invenzione di un’ideologia estetica; Menna, condensando il suo Profezia di una società estetica uscito proprio in quei mesi, sintetizza secondo una prospettiva utopica questa comune posizione. La politica non è più sufficiente per costruire una società libera; questa, semmai, necessita del fattore estetico: l’arte d’avanguardia, che fonde arte e vita, esteticità e comportamento, si configura di fatto come “alternativa alla condizione di frammentarietà e di separatezza della società industriale”. I precetti marxisti della rivendicazione di unità e di totalità, per traslato, andavano a coincidere con l’esigenza comparsa da qualche tempo sia tra critici che tra artisti a favore di un superamento del limitato e vincolante spazio della tela a favore dell’invasione totale e vitale nello spazio.
Quali artisti concretavano con il loro lavoro una simile temperie creativa? Inevitabilmente quelli appartenenti alle ultimissime generazioni. Pistoletto, meglio di chiunque altro, sembrava esplicitamente assumere e sintetizzare quell’“ideologia della comunità”, per Bonito Oliva, o quelle “aristocrazie comunitarie”, per Boatto, che ora divenivano i nuovi parametri della ricerca estetica e in cui “la soggettività si rovescia nella estroversione pubblica della coralità”. Nel quadro di fiducia per un’arte che si equipara alla contestazione, si inseriva la voce dissonante e opposta di Asor Rosa: “non c’è convergenza di sorta tra contestazione politica e ricerca artistica”, l’arte, asseriva, vive nell’empireo di un’esistenza autoreferenziale. 

Critica e società. È ovvio che il discorso coinvolgesse anche la posizione del critico d’arte impegnato a riflettere sul suo ruolo e sulla sua funzione. La sua posizione, emergeva, è quella dello sradicamento; egli deve operare nella globalità della cultura secondo un’accezione antropologica prima ancora che politica. Non può limitarsi alla traduzione da un linguaggio all’altro, piuttosto deve pervenire all’invenzione, alla componente creativa e con questa dichiarare l’autonomia del proprio impegno. Che poi le declinazioni fossero molteplici e di diversa forma, era inevitabile.
Per Boatto, così come per Calvesi, la parola, unico strumento dell’intellettuale, è l’evento che non può rifuggire la condizione di metafora, ovvero dal tentativo di spiegazione; il critico possiede infatti la consapevolezza della propria superiorità rispetto alla metafora dell’artista o a quella “scorciata fino alla brutalità dell’azione politica”.
Intransitivo critico è il sintagma che, secondo Bonito Oliva, definisce una nuova condizione: la critica, trovandosi dinnanzi ad un’arte che ha perso la possibilità di essere mediata al pubblico, si ripiega su se stessa rinunciando al proprio ruolo esegetico a favore della sua stessa attività creativa. È così che essa finisce per riflettere “soltanto la propria attività saldata nell’operazione della partecipazione alla globalità progettante”.
Se in una simile riflessione era latente la dichiarazione di impotenza della critica, della sua incapacità di presa sul reale, nella visione di Celant l’atto interpretativo perdeva senza appello ogni valido connotato. La mediazione, infatti, conduce inevitabilmente ad un’attenuazione, e quindi ad uno scadimento, dell’evento artistico; la soluzione, allora, doveva essere scorta nell’osmosi col reale, nel fare entrare l’“arte nell’analisi degli eventi socio-culturali e dilatando il portato artistico nella totalità del contesto in cui ci troviamo ad operare”. La posizione celantiana , forse la più radicale tra quanti poco dopo la contestazione riflettevano sulla critica d’arte, risultava comunque ancora propedeutica a quella “critica acritica”, ad una critica totalmente avulsa da componenti esegetiche ed interpretative, cioè, che Celant stesso, sulla scorta delle contemporanee posizioni di Susan Sontag, avrebbe teorizzato già alla fine del 1969.